"Al Condominni" poesia brillante in dialetto parmigiano di Bruno Pedraneschi,letta da Enrico Maletti

Estratto di un minuto del doppiaggio in dialetto parmigiano, realizzato nell'estate del 1996, tratto dal film "Ombre rosse" (1939) di John Ford. La voce di Ringo (John Wayne) è di Enrico Maletti


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domenica 14 ottobre 2012

Il Vangelo della domenica, commento di don Umberto Cocconi.





Pubblicato da Don Umberto Cocconi il giorno domenica 14 ottobre 2012 alle ore 8,53

Dal Vangelo secondo Marco. Mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni. Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio». Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».
 
A un tale, che sin da ragazzo aveva osservato le buone norme della legge morale, Gesù dice: “ti manca una cosa sola per essere perfetto, per entrare nella vita eterna”. Lasciamoci, per un attimo, coinvolgere da questa parola: a me cosa manca? Quali scelte devo compiere perché la mia vita sia più autentica, un po’ più “spericolata”, ancor più coraggiosa e meno formale? Non possiamo rassegnarci a vivere «una vita da mediano, a recuperar palloni» – essere quello che  «segna sempre poco, che il pallone devi darlo...  Stai lì, stai lì, sempre lì, lì nel mezzo» (Luciano Ligabue) e te ne vai via triste, senza aver fatto “goal”. Non sei più capace di rischiare, di fare il passo che potrebbe davvero cambiarti la vita, diventando cento volte più “ricco” di quello che sei. Ti accontenti di quello che hai, anzi, ti ci aggrappi e ne resti prigioniero – mentre la vera gioia sta nel mettersi in viaggio, nell’andare per strada a respirare il profumo della vera libertà.  Gesù ci propone un’altra ricchezza che, non solo non ti fa dipendere dalle cose, ma ti rende libero come gli uccelli del cielo. Le sue parole sconcertano perché rompono i nostri “concerti”, i nostri piani ben ordinati; ci spingono a comporre note dissonanti, a “uscire dal coro”, anzi a suonare una nuova musica, non più mondana, ma “celestiale”. 
 
 Innanzitutto, ci dice che per entrare nella vita eterna è necessario giocarsi tutto, qui, sulla terra, adempiendo i comandamenti scritti sulla seconda tavola della legge, quelli sulle buone relazioni con il nostro prossimo. E quelli sul nostro rapporto con Dio? Gesù, significativamente, non li nomina. Perché vuole sovvertire la gerarchia dei valori. Sicuramente, Gesù spiazza le nostre consuetudini e le nostre certezze e mette in evidenza che occorre avere nel cuore, prima di tutto, il nome dei nostri simili, più che il nome di Dio. I diversi comandamenti del Decalogo «non sono in effetti che la riflessione dell’unico comandamento riguardante il bene della persona ... I comandamenti, ricordati da Gesù al giovane interlocutore, sono destinati a tutelare il bene della persona, immagine di Dio, mediante la protezione dei suoi beni» (Veritatis Splendor). Tuttavia, Gesù sta cercando di aiutare l’uomo che gli ha quasi “sbarrato la strada” gettandosi ai suoi piedi: vuole che arrivi alla verità su se stesso, a riconoscere l’ostacolo che ha dentro.  «Fissato lo sguardo» su di lui – o meglio «vedendo dentro di lui», così in greco – Gesù «lo amò». Ecco sintetizzato l’incontro con quest’uomo, che l’evangelista Marco non identifica lasciandoci il dubbio (forse era lui stesso?), mentre Matteo riferisce che questi era un giovane e Luca, un notabile. Di certo, quest’uomo, come tanti di noi, è prigioniero dell’idolatria dei beni materiali: Gesù lo ha “letto” chiaramente in lui e ha fatto emergere la sua schiavitù.
 
E l’idolatria è, per eccellenza, il grande peccato, il tradimento dell’alleanza con Dio, radice di ogni tradimento verso l’uomo! Ecco la “bontà” di Gesù: buon maestro davvero, anzi, il migliore – buono della bontà-verità di Dio, perché mentre “ti riprende,  ti libera”. Ascoltando il Signore, i discepoli passano dallo sconcerto allo stupore, dall’essere su un’altra lunghezza d’onda, a un grande sbigottimento. Ancora una volta, le parole del Maestro paiono “impossibili da realizzare”, una vera e propria follia. Per questo, Gesù non si stanca di “volgere lo sguardo” su tutti gli uditori ma mantiene con loro un contatto visivo forte e diretto. Ecco lo sguardo che i discepoli devono incontrare e a cui devono corrispondere, per essere conquistati da Lui. Paolo afferma: “Sono stato conquistato da Cristo”, sono stato sedotto da lui. I discepoli che sono chiamati a convertirsi devono distogliere il loro sguardo dai beni materiali e volgerlo intensamente e ininterrottamente verso Gesù. Solo così saranno in grado di “lasciare tutto e seguirlo”. Nel complesso è una vera “guerra di seduzioni”: le cose del mondo hanno in effetti una forza attrattiva potente, catturante. Quante volte, invece che “possidenti” ci ritroviamo “posseduti” da ciò che abbiamo e amiamo? Siamo come molluschi aggrappati allo scoglio, incollati ai nostri beni che, comunque non ci bastano mai e che oltretutto ci  illudono di essere liberi e ci , impediscono di dirigerci “oltre” nell’infinito, come dice il poeta Eugenio Montale: «sotto l’azzurro fitto / del cielo qualche uccello di mare se ne va; / né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto: / “più in là!”».
 
Prometheus è il nome di una navicella spaziale – siamo nel 2093 –  che trasporta un gruppo di biologi e scienziati su un pianeta distante svariati milioni di chilometri dalla terra, dove potrebbe abitare la razza degli “Ingegneri”, che, come si ipotizza, sembra abbia dato vita al genere umano sulla terra. Di quella spedizione fanno parte, oltre a un androide, anche alcune persone motivate da interessi sia scientifici che puramente economici. C’è anche chi vuol chiedere a questi “Ingegneri”, creatori degli umani (?! sic), il segreto dell’immortalità. Prometheus, nome che rimanda a quell’eroe mitologico che osò rubare agli dei il fuoco, riporta per analogia al quesito che sempre ha affascinato l’uomo: come rubare l’immortalità? «Tra il divino e l’umano (troppo umano) di domande assolute che non conoscono tempo né risposta (da dove veniamo? chi siamo?), che il segreto di una creazione nessuno dovrebbe mai violare: là, nel profondo più fondo dell’enigma di Dio, all’origine della vita. Dov’è solo la morte, però, a dettare le regole. E la ricerca non può mai davvero dirsi finita, terminata, conclusa» (Filiberto Molossi). Prometheus, il cui viaggio dovrebbe in qualche modo simboleggiare la ricerca del soprannaturale, che porta all’indagine e alla speculazione sulle nostre origini,  si muove su una linea sottilissima che separa la fede dal dubbio, la scienza dal mistero, «avventurandosi nei territori più intimi e pericolosi... là dove il sogno malato di vivere per sempre è l’ultimo inganno di un’umanità che pensando di innalzarsi verso le stelle precipita nel pozzo sordido della “hybris” (orgoglio), scoperchiando nuovamente il vaso di Pandora» (Filiberto Molossi). Da questo ne usciranno nuovi mali, che l’uomo potrà paradossalmente debellare solo con l’amore che nasce dallo sguardo del Crocifisso. Ecco la ricchezza delle ricchezze, ecco il segreto della vita eterna!  
(DON UMBERTO COCCONI)

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