"Al Condominni" poesia brillante in dialetto parmigiano di Bruno Pedraneschi,letta da Enrico Maletti

Estratto di un minuto del doppiaggio in dialetto parmigiano, realizzato nell'estate del 1996, tratto dal film "Ombre rosse" (1939) di John Ford. La voce di Ringo (John Wayne) è di Enrico Maletti


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domenica 20 gennaio 2013

Il Vangelo della domenica. Commento di don Umberto Cocconi.




Pubblicato da Don Umberto Cocconi
il giorno domenica 20 gennaio 2013 alle ore 12,45

Tre giorni dopo vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c'era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d'acqua le anfore»; e le riempirono fino all'orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l'acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l'acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all'inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».Questo, a Cana di Galilea, fu l'inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui (Vangelo secondo Giovanni).

L’evangelista Giovanni ha una capacità singolare di concentrare in poche righe una gamma molto vasta di simboli, di significati, di temi ricorrenti e fondamentali: in ogni episodio è leggibile in filigrana, in modo più o meno completo, la trama profonda di tutto il quarto Vangelo. Lo vediamo in modo particolare nell’avvenimento delle “Nozze di Cana”, che ci presenta una carrellata di persone, le più diverse, reali e simboliche insieme: la madre di Gesù, - mai chiamata per nome nel vangelo di Giovanni - , Gesù e i suoi discepoli, i servi, il maestro di tavola – ma anche lo sposo, - che ascolta ma non parla-, una sposa sottintesa e, naturalmente, un’immaginabile cornice di invitati. Una piccola moltitudine, colta in un momento tipico della vita, durante una festa di nozze: un’occasione colta consapevolmente da Gesù per annunciare il suo intervento nella nostra storia. Lo sposalizio è la realtà umana, nella quale la Chiesa legge se stessa, nel suo mistero di amore con Cristo: lo Sposo dell’umanità. In tutta la Scrittura, del resto, le nozze tra uomo e donna sono il simbolo dell’Alleanza tra il Dio Creatore e Liberatore e il genere umano. Il brano giovanneo inizia con un riferimento temporale: “Tre giorni dopo”. Non è un dato casuale: per il Nuovo Testamento, il terzo giorno è quello della resurrezione.


Giovanni ci porta così programmaticamente al tema determinante, decisivo: la Pasqua di Gesù. A Cana di Galilea abbiamo, per così dire, il primo “segno” del fatto che Gesù è venuto a rinnovare la gioia dell’umanità, intristita dalle difficoltà, dagli incidenti quotidiani, ma soprattutto dalla morte. Le parole di Gesù: “Non è ancora giunta la mia ora” sono un’altra indicazione cronologica ricca di simboli. Fin dall’inizio Gesù, infatti, ci invita a guardare verso la sua “ora”. Il segno di Cana anticipa l’ora definitiva della morte di Gesù, della sua risurrezione, della sua manifestazione gloriosa all’umanità. Durante il banchetto viene a mancare il vino: non è possibile che possa mancare il vino, fonte della gioia, in una festa di nozze! Se manca il vino è perché è entrata nella vita dell’uomo la morte, al posto della vita. Il vino è ciò che si oppone alla tristezza, al tran tran quotidiano, alla ripetitività, alla noia. E’ l’esuberanza lieta dell’uomo che abbandona le precauzioni, le paure, le difese, le riserve, e “si butta”. L’evangelista annota la presenza di sei giare di pietra, probabilmente vuote, esageratamente grandi per lo scopo alle quali, a quanto pare, erano destinate: la purificazione rituale! Fossero state, almeno, piene di olio o, appunto, di vino! Invece non erano altro che una realtà ingombrante, perché simboli di una religiosità arida, vuota, inconcludente e formale. 

Così, l’acqua fatta versare da Gesù nelle giare sino all’orlo, diventa simbolo della ricchezza e dell’abbondanza della vita nello Spirito, riversata sulla terra da una sorgente inesauribile. Nella Bibbia, come d’altra parte nella storia delle culture, il vino è simbolo di una vita che si sgomitola, che si espande liberamente, che si racconta. E’ non soltanto la gioia per la sopravvivenza, ma la gioia per la festa, per l’amicizia, per il banchetto, per le nozze, per l’amore, per la vita nuova e infine per la vittoria. Segno tutto questo dell’entusiasmo, della semplicità e della scioltezza interiore, la gioia del vino è simbolo della caduta delle inibizioni, delle paure che impediscono la comunicazione reciproca. Ora, la mancanza del vino, sempre nella simbologia culturale e biblica, è tutto ciò che chiude, irrigidisce, crea sospetto, tristezza, permalosità, suscettibilità, litigiosità, malumore, pessimismo, critica corrosiva, acidità. La gioia del Vangelo è propria di chi, avendo trovato la pienezza della vita, è sciolto, libero, non timoroso, non impacciato. Chi cerca la gioia in sicurezze umane, in ideologie, in arzigogoli vari, non può trovare questa gioia. «La gioia del Vangelo è Gesù crocifisso che riempie la nostra vita, ci perdona i nostri peccati, ci dà il segno del suo amore infinito, riempiendoci giorno e notte della sua letizia profonda» (C. M. Martini). Quando manchiamo di scioltezza, quando siamo spaventati, pigri, timorosi, affannati per il futuro della Chiesa e della nostra comunità, vuol dire che non abbiamo la gioia del Vangelo, ma soltanto qualche ombra, qualche eco lontana, intellettualistica, astratta del Vangelo.

La gioia cristiana non è semplicemente qualcosa, ma Qualcuno: è la persona del Kyrios, il Risorto vivente da sempre. E’ proprio in Lui che lo stesso dolore può essere trasfigurato. A partire dalla Pasqua, “tutto è grazia”, la vita intera si trasforma. Il cristiano si pone, come viandante, in cammino nella storia, in un mattino di primavera, proclamante, come San Francesco, le lodi dell’Altissimo. In Cristo infatti egli è in grado di recuperare tutto il creato: tutto diventa fratello e sorella, perfino la morte. La vita si trasforma in una festa ininterrotta, nonostante il male presente in noi e attorno a noi. Questa festa diventa anzi la ragione profonda per lottare contro ogni forma di male e impegnarsi a portare la gioia dove c’è la tristezza, la luce dove ci sono le tenebre, la speranza dove c’è la disperazione. L’Exultet della Veglia di Pasqua esprime questa consapevolezza: «Esulti il coro degli angeli, esulti l’assemblea celeste… Gioisca la terra… Tutto risuoni per le acclamazioni del popolo in festa».
(DON UMBERTO COCCONI)

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