"Al Condominni" poesia brillante in dialetto parmigiano di Bruno Pedraneschi,letta da Enrico Maletti

Estratto di un minuto del doppiaggio in dialetto parmigiano, realizzato nell'estate del 1996, tratto dal film "Ombre rosse" (1939) di John Ford. La voce di Ringo (John Wayne) è di Enrico Maletti


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domenica 23 settembre 2012

Il Vangelo della domenica. Commento di Don Umberto Cocconi



Pubblicato da Don Umberto Cocconi il giorno domenica 23 settembre 2012 alle ore 10,12

 

Dal Vangelo secondo Marco. Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo. Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».  E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».
 
Gesù insegna, ancora oggi, come insegnava allora. Ma i discepoli – di ieri e di oggi –  non capiscono, ovvero temono di lasciarsi provocare dalle sue parole. “Capire” significa accogliere dentro di sé, fare proprio, afferrare, tenere. Forse, i discepoli non fanno domande perché in realtà hanno colto qualcosa  il lato terribile e per loro inaccettabile  di ciò che Gesù sta dicendo di se stesso e rifiutano di accoglierlo in sé. Hanno paura di lasciarsi coinvolgere o addirittura sconvolgere dalle parole del maestro. Ma c’è di più. Gesù si è accorto che il cuore dei discepoli è altrove, non è certo con lui e perciò li invita a svelare il loro argomento di discussione lungo la via. “Discutere” non è semplicemente “parlare”. L’origine del verbo indica un moto violento: scuotere,  separare, agitare. Il gruppo è entrato in fibrillazione, è in atto un vero e proprio “scontro di particelle”.

Tra i discepoli c’è tensione: ecco perché sono distratti! Dopo che Gesù si era rivolto a Pietro chiamandolo Satana non c’era forse bisogno di un nuovo leader?  Pietro si era “fatto fuori” con le sue stesse mani, declassato da vicario di Cristo a strumento di Satana. Ora sono aperte le candidature. Chi potrà prendere il posto lasciato libero? I discepoli, però, non hanno il coraggio di venire allo scoperto. All’improvviso, sembrano vergognarsi della lontananza dei loro argomenti da quelli di Gesù. Lungo la via, Gesù aveva ribadito che il Figlio dell’Uomo sarebbe stato consegnato nelle mani degli uomini, che gli avrebbero preparato un “posto” tutt’altro che comodo. Loro, invece, sono presi dalla smania di conquistare il posto di comando, non solo comodo ma anche privilegiato ed esclusivo, costi quel che costi. Gesù e i discepoli sono sintonizzati su due lunghezze d’onda ben diverse. C’è chi cerca il primo posto, c’è chi cerca l’ultimo posto; c’è chi cerca un posto al sole e chi accetta invece di occupare un posto “nella notte della morte”.

 Gesù è conscio della profonda frattura nel gruppo dei dodici. Ecco perché dalla strada si passa alla casa, dove tutti insieme possano almeno ritrovarsi, raccolti in uno stesso luogo. Una volta entrato sente il bisogno di sedersi. E’ un segno della sua stanchezza? Del suo essere deluso, amareggiato dal comportamento dei suoi discepoli? In realtà, questo è innanzitutto il gesto del Maestro e Signore, ma è pure il gesto “materno” della chioccia che raduna i suoi pulcini. Egli raccoglie intorno a sé gli apostoli, allontanatisi non solo da lui, ma anche l’uno dall’altro, per lo scatenamento di rivalità mimetiche, come direbbe René Girard, fra piccoli gruppi in competizione tra loro. Chiamando a sé “i Dodici”  tutti insieme, innanzitutto Gesù li toglie dalla massa, dalla folla, dall’anonimato, rivolge loro un appello alla responsabilità, li invita a sottrarsi al contagio della violenza: non sono più l’uno contro l’altro, ma ognuno deve  riconoscere il valore dell’altro, la sua singolarità.  E noi, chissà quali discorsi facciamo, lungo il cammino, sgomitando per farci strada nella vita... Se qualcuno ci ascoltasse, che immagine si farebbe di noi?

Siamo dominati dal desiderio di essere grandi, non diversamente dai Dodici. Siamo tutti contagiati dal desiderio di essere non solo qualcuno, ma di essere i più importanti. Si direbbe che ci “facciamo le scarpe” l’un con l’altro, e a quale prezzo! Invece di gareggiare nello stimarci a vicenda, siamo pronti a sacrificare l’altro e la sua reputazione per la nostra affermazione sociale. Dovremmo ricordarci che ciascuno di noi è un uomo singolo, “quest’uomo qui”, con le sue caratteristiche uniche e irripetibili che ne fanno qualcosa di insostituibile. Gesù si sta rivolgendo a tutti: anche a te che leggi. Sei chiamato a guardarti dentro con sincerità. Senti o non senti il desiderio di essere grande? Spesso, questo desiderio segreto ci corrode  silenziosamente e ci fa sentire l’uno separato dall’altro. Gesù propone invece un modello sconcertante: la vera grandezza sta nel farsi piccolo, nell’occupare l’ultimo posto, quello meno ambito, quello che tutti scartano o dove vengono collocati solitamente gli “inferiori”.

La grandezza, secondo Gesù, sta nel servire, nel darsi tutto a tutti: una chiara allusione alla croce. Non è forse lei,  la croce, l’ultimo posto, quello che di certo non vorremmo occupare? Per rendere il suo insegnamento ancora più efficace, Gesù pone al centro, in mezzo ai suoi discepoli, un bambino. All’epoca di Gesù, il bambino era l’emarginato per eccellenza, l’ultimo nella scala sociale: non aveva alcun diritto. E Gesù lo abbraccia, quasi a dire che il posto che i discepoli devono occupare è tra la gente che non conta, con chi viene scartato o ritenuto “spazzatura”. Gesù afferma che chi accoglie il piccolo, colui che è fragile, che non ha niente, non fa altro che accogliere lui,  e chi accoglie lui accoglie nella sua vita il Padre che lo abbraccia. Mai il Padre è stato così vicino all’uomo! Il Dio che i cieli dei cieli non possono contenere, il tre volte Santo, manifesta la sua gloria, la sua bellezza, nel volto del più debole, verso il quale sei chiamato a prenderti cura. Una mancata risposta ti priverebbe della tua umanità, non meno che della tua stessa dignità.  In questa chiave di lettura, Cristo è davvero una figura “scandalosa”, il paradosso assoluto: un Dio che si presenta sotto l’aspetto più inglorioso, nelle sembianze di un uomo debole, sofferente, soggetto alla morte e alla morte di croce, quasi a negare apertamente la sua potenza, o addirittura il nostro concetto della sua potenza.  

Grazie a un profondo cambiamento interiore, il discepolo di Cristo è capace di non fermarsi alle apparenze, mettendosi così nella condizione di accogliere la manifestazione di un Dio che fa “corpo unico” con la condizione umana nella sua più assoluta fragilità e povertà. Un Dio così è il fondamento di ogni fraternità autentica, senza finzioni, senza ipocrisie: una verità sconvolgente e consolante come nessun’altra. Scrive Soren Kierkegaard, all’età di 22 anni: «A cosa mi servirebbe che la verità mi stesse dinanzi nuda e fredda, indifferente che io la conosca o meno, capace più di provocarmi un brivido di angoscia che un abbandono fiducioso? Ciò che veramente conta è capire se stessi, quello che si deve fare, non quello che si deve conoscere. Trovare una verità che è verità per me, per la quale devo vivere e morire».
(DON UMBERTO COCCONI)

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