Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento» (Vangelo secondo Luca).
Che cosa succede quando si prega? Che cosa mi succede quando entro nel mondo della preghiera? E soprattutto: che cosa significa pregare? Se scorriamo i vangeli, ci accorgiamo che si tratta di dell’esperienza fondamentale della persona. La figura di Gesù, come Uomo di Preghiera per eccellenza, ha sempre attirato e in qualche modo turbato i discepoli. Perfino il loro (e il nostro) sguardo, mai abbastanza attento e sensibile, ha colto l’importanza di questo suo “tratto di stile”. Anche noi, contemplando Gesù, possiamo capire che “dire preghiere” non è l’aver colto il mistero profondo della preghiera, perché questa è essenzialmente un colloquio d’amore. Pregare è innanzitutto mettersi in atteggiamento di ascolto, per cogliere nel silenzio la voce di Dio. Pregare è stare a tu per tu con Colui dal quale sappiamo di essere amati. Nella preghiera autentica si sperimenta quell’amore amore che fa essere ciò che realmente si dovrebbe essere: figlio di Dio. Santa Teresa di Gesù Bambino afferma: «Per me la preghiera è uno slancio del cuore, è un semplice sguardo gettato verso il cielo, è un grido di riconoscenza e di amore nella prova, come nella gioia». Pregare è anche un nuovo sguardo sul mondo: «quando ci si apre alla realtà e ci si abbandona alla meraviglia, alla riverenza, si può guardare quella realtà con occhi pieni d’amore e allora la si ringrazia e la si loda perché esiste» (C. M. Martini).
È il cuore che prega, non le labbra, ed è un cuore colmo di gratitudine. Ed è il cuore la mia vera dimora; è il mio centro nascosto, irraggiungibile dalla ragione e dagli altri, solo lo Spirito di Dio può scrutarlo e conoscerlo. È il luogo della decisione, dell’incontro con la verità. L’evangelista Luca afferma che, mentre Gesù è in preghiera, i cieli si aprono: il mondo di Dio abbraccia il mondo dell’uomo, non c’è più separazione tra il cielo e la terra (“Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” era l’invocazione ardente dei profeti). Di nuovo quindi, come all’inizio della creazione, lo Spirito si libra sulle acque e dona la vita al mondo. Lo Spirito scende, copre, feconda, incendia, manda. La presenza dello Spirito, che avvolge la vita di Gesù, è rappresentata dalla colomba, per eccellenza il simbolo dell’amore fedele. Mentre prega, Gesù si sente chiamato e riconosciuto, percepisce se stesso dentro una relazione profonda, che lo fa sentire unico. Vive l’esperienza di essere “l’amato del Padre”, che lo fa esistere come figlio unigenito. In lui, il Padre “ha posto il suo compiacimento” – come se il nome familiare di Gesù, presso il Padre, fosse “Amore mio e Gioia mia!”. Che momento di intensa felicità per Gesù: sapersi parte (anzi, partner) di una storia d’amore così grande – sentirsi colmato dall’Amore del Padre fino a traboccarne! In Lui e da Lui, infatti, l’amore del Padre sarà riversato nei nostri cuori: un amore che ci farà essere figli nel Figlio e fratelli tra noi. Nella preghiera, anch’io posso sentire di nuovo la voce del Padre che mi dice: “in te ho posto il mio compiacimento”. Certo, se considero tutti i miei limiti, può sembrarmi impossibile.
Come può il Padre “compiacersi di noi”, se noi per primi sentiamo di valere così poco? Ogni giorno facciamo di tutto per compiacere gli altri e desideriamo di essere amati, a costo di ogni compromesso. Ora invece, indipendentemente dalle nostre opere, siamo autorizzati a credere che Dio si compiace di noi. E non perché siamo bravi o ce lo meritiamo, no: il suo amore va al di là di ogni aspettativa e merito. Nonostante i miei sbagli, i miei errori, Dio è dalla mia parte, anzi, mi vuole un bene immenso: mi vuole un bene da morire. Quando prego, non sono io che parlo a Dio – è Lui, piuttosto che, dal profondo del suo essere mi parla e mi dice: “In te, figlio, figlia, proprio in te mi sono compiaciuto”. Dio, quindi, investe su di me, scommette su di me, crede in me. Mi fa capire – fatto inaudito – che ha bisogno di me. Nel mio nulla, nella povertà, nel vuoto che sono, Dio riversa come un’onda irresistibile tutta la sua grazia – e quel nulla trabocca di bellezza. Ma come è possibile tutto questo? “Su di te stenderà la sua ombra la potenza dell’altissimo”, dice l’Angelo alla stupefatta Vergine Maria. E Giovanni il Battista annuncia: “Io vi battezzo con acqua, ma lui vi battezzerà in Spirito santo e fuoco”. Ecco: la forza di Dio ci pervade e ci incendia. Sei anche tu chiamato “a portare il fuoco sulla terra”! Anche se il mondo non se ne accorgerà, tu però sei chiamato ad essere un segno di contraddizione, ma soprattutto di speranza, perché vincerai il male con il bene, con la forza della tua testimonianza.
Uno degli artisti e cineasti più avventurosi e ispirati di oggi, Lech Majewski, invita lo spettatore a entrare, letteralmente, nell’epico capolavoro del maestro fiammingo Pieter Bruegel, La salita al Calvario (1564). La tela ambienta la Passione di Cristo nelle Fiandre del XVI secolo, sconvolte dalla brutale occupazione spagnola: la Gerusalemme del 33 dopo Cristo si inabissa nell’Anversa del 1564. Nel film il regista accompagna la vita dei personaggi che popolano il quadro nell’arco dell’intera giornata, e il momento culminante – la salita di Gesù al Calvario – non sembra turbare in maniera eccessiva le loro ordinarie occupazioni. I colori della passione ci invita a ricostruire il significato più profondo di una “grande storia”, quella di Gesù, che ieri come oggi incrocia la nostra vita ed è sempre a rischio di scivolare via quasi inosservata, nell’indifferenza generale. Siamo ben lontani dal “compiacerci” di Gesù, Uomo dei Dolori e soprattutto dell’immensa Fiducia – quando proprio allora, fu Gioia piena per il Padre! Mentre Gesù viene deposto dalla croce, si ode la voce della Madonna che riflette: «Come posso continuare a stare qui? Cosa posso fare? Non riesco a pensare con chiarezza. No… io non capisco.
Di certo, egli era nato con uno scopo. Lo sapevo fin dal giorno in cui si è mosso dentro di me… Quando è diventato grande, ha portato una luce nel mondo. Questa luce ha sfidato l’astuto e oscuro privilegio dei nostri usi e costumi corrotti. Così è diventato una minaccia per qualsiasi folle pericoloso, il cui interesse non coincide né con Dio, né con gli uomini, ma con le proprie miserabili certezze e col potere. E ora c’è l’oscurità… Gli usi e i costumi hanno conquistato la notte e io non sono più in grado di capire». Sembra che con la morte di Gesù tutto sia finito, che le tenebre siano riuscite a prevalere. Invece, dopo il terzo giorno, per la storia dell’umanità esplode la primavera. Nelle ultime sequenze c’è un richiamo esplicito alla risurrezione: i bambini giocano, qualcuno dà fiato a uno strumento musicale, qualcun’altro accenna a un passo di danza, e il grande prato che era stato teatro della Passione ora accoglie una gioiosa festa di contadini. Il fuoco dello Spirito si è di nuovo acceso, nel cuore dell’umanità ferita.
(DON UMBERTO COCCONI)
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