Pubblicato da Don Umberto Cocconi il giorno domenica 6 ottobre 2013 alle 15,31
Gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: "Sràdicati e vai a piantarti nel mare", ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: "Vieni subito e mettiti a tavola"? Non gli dirà piuttosto: "Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu"? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: "Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare"» (Vangelo secondo Luca).
Straordinario Gesù, che a tavola con i tuoi amici continui a raccontare senza stancarti, in una effervescenza di parabole, la sublime misericordia di Dio! Gesù, che per invitarci ad accogliere “l’impossibile” della tua presenza nel mondo - sei Tu il Regno di Dio - prendi a prestito perfino i nomi e l’identità degli alberi! Ecco il granello di senapa: lo sappiamo, è il più piccolo di tutti i semi, ma col tempo diventa un albero alto e frondoso, dove gli uccelli possono fare il nido; e poi il gelso, che ha radici fitte ed estesissime, sta di guardia nei confini nei campi e protegge le viti… Gesù che ci inviti a osare, perché il mondo ha bisogno della novità di Dio… «Se aveste soltanto/ un filo di fede/ vedreste gli alberi/ piantarsi nel mare:/ il boia senza impiego,/ le manette spezzate,/ le prigioni ormai vuote!» (Didier Rimaud). Il mondo offeso dall’ingiustizia, dal terrore, dalla mancanza di fiducia, il mondo di sempre, oppresso e decrepito, chiede una rivoluzione vera, tenace e silenziosa - come la vita dell’albero, che tace e cresce, tutt’al più canta con la voce degli uccelli, ospiti tra i suoi rami, vivo segnale della sua esistenza. Il Signore vuole aiutare i suoi discepoli dal cuore indurito - così simili a noi - a comporre una comunità diversa, segno e seme di un mondo rinnovato, uomini e donne veramente liberi, nella comprensione, nella condivisione, nel perdono reciproco - in una parola, nell’Amore autentico. Questo vuole il Padre, questo è il suo Volto, manifestato nel concreto comportamento del Figlio!
Ma gli uomini non sanno osare il “salto della fede”, anzi, nemmeno un saltello piccolo piccolo, un briciolo di fiducia nella sollecitudine del Signore della vita, amorevole “Genitore”. Toccàti, ma non abbastanza da convertire il loro sguardo, gli apostoli chiedono quello che anche noi, “gente di poca fede”, non smettiamo di chiedere ancora oggi: “Aumenta la nostra fede!”, aiutaci a fidarci di te! Forse, per l’ennesima volta, i discepoli chiedono segni, argomenti decisivi, un supplemento di miracoli… Proprio come ai nostri tempi, avidi di “segni eccezionali”! Non siamo più capaci di credere, di affidarci, a questo Padre-Madre amorevole: siamo sempre più diffidenti e chiusi in noi stessi. Più che mai, nell’era del dominio della tecnologia e dello strapotere dell’economia, chiediamo di vedere per credere, quando invece Gesù continua a proporci il contrario. «Chi crede, vede; vede con una luce che illumina tutto il percorso della strada, perché questa viene a noi da Cristo risorto, stella mattutina che non tramonta» (enciclica “La luce della fede”). Il paradosso è che mai come in questi tempi “senza fede” ci ritroviamo ad essere creduloni: crediamo quasi a tutto e al contrario di tutto, siamo perennemente a rischio di idolatria. Per Martin Buber, c’è idolatria «quando un volto si rivolge riverente a un volto che non è un volto», ossia alle cose, a ciò che non ha volto. L’idolo non ti rivolge una chiamata che ti faccia uscire dalle tue sicurezze: è solo un pretesto per porre te stesso al centro della realtà, nell’adorazione di ciò che le tue mani realizzano.
Chi non vuole affidarsi a Dio sarà preda delle voci dei tanti idoli che gli gridano: "Affidati a me!". La fede presuppone la conversione, e dunque è l’opposto dell’idolatria: è la separazione dagli idoli che impediscono di tornare al Dio vivente, mediante un incontro personale, un abbraccio confidente, un desiderio di vita nuova. Il contrario della fede non è l’ateismo, ma la paura, l’insicurezza radicale, l’angoscia. Tuttavia, la fede non è un facile espediente per “darsi pace”. C’è molto fraintendimento, nelle parole con le quali il giovane Nietzsche invitava la sorella Elizabeth a rischiare, percorrendo «nuove vie, nell’incertezza del procedere autonomo». E aggiungeva: «A questo punto si separano le vie dell’umanità: se vuoi raggiungere la pace dell’anima e la felicità, abbi pur fede, ma se vuoi essere un discepolo della verità, allora indaga». La fede non è rassicurazione, oblio, tepore e compiacimento, ma è una luce che ci invita a procedere oltre, a esplorare sempre di più l’orizzonte che essa illumina, per conoscere sempre più a fondo, con stupore crescente, Colui che amiamo. Nasce dall’incontro con il Dio vivente che ci chiama e ci svela il nostro nome, un Amore che ci precede e su cui possiamo poggiare, stare saldi e costruire la nostra vita. Trasformati da questo Amore riceviamo occhi nuovi, sentiamo germogliare in noi una grande promessa di pienezza, il nostro sguardo può aprirsi sul futuro. Se sradicassimo completamente la fede dai nostri cuori di cittadini del ventunesimo secolo, che cosa resterebbe? Una paura, una diffidenza e una fragilità devastanti, probabilmente, tale da disintegrare anche il tessuto sociale. Sentimenti da servi, da schiavi, nel senso più deleterio.
Le parole di Gesù sui “servi inutili”, o meglio, sui servi “senza utile”, che lavorano senza guadagno, sono una provocazione, come sempre. Forse, per scuotere l’animo “servile” dei discepoli sempre più confusi e fragili, Gesù usa questa metafora brusca, derivata dalla consuetudine sociale, ben comprensibile perché data per scontata. Ma questi servitori che compiono il proprio dovere con diligenza e spirito di gratuità ci portano, immancabilmente, oltre l’apparenza letterale della situazione descritta da Gesù. Invece di aggiungere “argomenti” che possano accrescere la fede, il Signore taglia corto, perché il cuore dei discepoli è ancora troppo simile a quello dei due figli del Padre misericordioso (il figlio maggiore, soprattutto), la parabola che abbiamo ascoltato poche domeniche fa, e che ha tutta l’aria di essere caduta nel vuoto. Al Maestro non interessa insistere sul rapporto tra il servo e il padrone: piuttosto, vorrebbe accrescere nel cuore dei discepoli il sentimento della filialità, come gioiosa partecipazione alla pienezza di vita del Padre. Ma la durezza di cuore è un ostacolo terribile.
Gesù dovrà dare tutto se stesso, mostrare fino all’evidenza sanguinante cosa vuol dire “servire” in totale, gratuita, amorosa fedeltà e fiducia. Il Figlio serve l’umanità e serve il Padre, nello Spirito Santo, mostrando il volto sconcertante di un Dio che si pone totalmente al servizio della sua creatura più amata. Ci può aiutare a comprendere la dialettica padrone-servo, presente nella parabola, il filosofo Hegel con la sua opera “Fenomenologia dello spirito”, che può essere definita la “storia romanzata della coscienza”. Il servo, lavorando, dà al padrone ciò di cui lui ha bisogno, per cui quest’ultimo, alla fine, non riesce più a fare a meno del servo. Dunque la subordinazione si rovescia: il padrone diviene servo, e il servo padrone del padrone. Se ci pensiamo bene i sottili psicologismi di Hegel sulla dialettica “servo-padrone” diventano davvero una piccola cosa, perché è sempre presente “la logica del dominio”, tra chi subisce e chi comanda: la solita vecchia storia, che non può mai farci credere che un gelso possa sradicarsi e trapiantarsi nel mare.
(DON UMBERTO COCCONI)
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