Pubblicato da Don Umberto Cocconi il giorno sabato 7 settembre 2013 alle 20,45
Una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: "Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro". Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo». (Vangelo secondo Luca: 14, 25-33)
Non è semplicemente “una folla numerosa” quella che “va con Gesù”: è una “marea di gente” quella che lo segue. Mare è un termine statico, marea invece esprime una “quantità imponente in movimento” (Devoto-Oli). Perché questa marea umana continua a seguirlo? Mi piace oggi mescolarmi alla folla stupita che ascolta le parole di Gesù e ne è affascinata. Siamo in tanti ad aver seguito il maestro di Nazaret perché la sua parola ci ha conquistati, ci ha fatto vibrare dal profondo e ci siamo messi sulle sue orme. Perché lo abbiamo fatto? Che cosa ci ha spinti a compiere questo “esodo” verso di lui? Gesù “prende di petto” la moltitudine, anzi letteralmente “si voltò verso di loro”, per così dire li sfida e “mette le carte in tavola”. Il caso, la curiosità, la simpatia istintiva e quant’altro non sono motivi sufficienti: ecco perché Gesù si volta con determinazione, quasi imbarazzato dalla folla che lo segue con spensieratezza, inconsapevole della vera posta in gioco: l’arrivo a Gerusalemme, che implica il suo dono totale per Amore! Lui si volta e ci guarda negli occhi, mettendo così a nudo le intenzioni di ciascuno: vuole che la nostra sia una scelta personale, vuole farci uscire dalla folla, dalle vaghe e varie suggestioni emotive. Ora spetta a te, solo a te decidere: nessuno può farlo al tuo posto. Sei libero di fare un passo avanti o di fare un passo indietro: a te la mossa. Ciò che Gesù chiede è di essere capaci non solo di fare il primo passo, che forse non costa niente, ma di essere capaci di fare anche il secondo, il terzo e successivamente di non stancarsi, di essere determinati, convinti e perseveranti. Fare quel passo significa compiere innumerevoli distacchi, vivere una profonda solitudine, diventare povero, ultimo, senza niente; significa separarti da ciò che hai di più caro di tuo, anche nel mondo degli affetti.
Pensaci bene, te la senti? Altrimenti non conviene; saresti infatti come colui che ha iniziato “a costruire una torre, ma poi non è stato capace di finire il lavoro", perché non ha avuto la forza di portare avanti, a regola d’arte, come dovuto, il suo impegno. Un fallimento procurato da leggerezza o indecisione, da nostalgie o da altri futili motivi, sarebbe imperdonabile. Non è il caso, quindi, che prima di prendere una decisione impegnativa tu ti sieda prima a esaminare, se “puoi affrontare con diecimila uomini chi ti viene incontro con ventimila”? Occorre “prendersi tutto il tempo necessario”: questo è l’unico passo evangelico, in cui si consiglia al discepolo di sedersi, per scegliere di camminare nella direzione giusta. Più ci penso con serietà, però, e più ho la certezza che Gesù ci chieda … ciò che è umanamente impossibile. E’ una, meravigliosa, pazzia seguirlo a quelle condizioni! Per essere discepoli di Cristo bisogna essere disposti a compiere un triplice esodo: vivere “con distacco” il mondo degli affetti, rappresentato dalle tante relazioni familiari; “prendere la croce”, ossia farsi carico della vita degli altri, senza pretendere nulla in cambio, vivendo nella gratuità e nel servizio; rinunciare alle cose, a tutti gli averi, per non essere attaccati, posseduti dalle realtà di questo mondo. Al discepolo, quindi, viene chiesto di lasciare il mondo caldo degli affetti familiari, di uscire dalla tana e dal nido dove, si sente sicuro, dove si sperimenta il sentirsi amato, custodito e curato. ”Chiunque”: non deve sfuggirci il vigore di questo pronome indefinito, posto all’inizio della frase, afferma un principio che riguarda tutti, nessuno escluso. “Portare”, poi, non è la stessa cosa che “prendere”: non un atto singolo compiuto una volta per tutte, bensì un’azione continua, costante, cui dà spicco l’avverbio “ininterrottamente”, “ogni giorno”.
Al discepolo, quindi, viene chiesto di buttarsi nella mischia senza pensare a se stesso, di perdersi nel mondo delle relazioni, facendosi carico della vita altrui, in modo tale da far coincidere la propria felicità con la felicità degli altri, portando tutti “sulle proprie spalle”, per significare una condivisione di vita, con chi non fa parte della propria famiglia. L’ultima frase di Gesù sembra proprio non lasciare scampo! Come si potrà mai rinunciare a tutti i propri averi (tenendo conto che anche gli affetti e il tempo di vita possono essere vissuti come “possesso”)? Essere disposti a rinunciare ai beni è in fondo il modo per affermare che nulla tiene il posto di Dio nella nostra vita e che il nostro cuore non è “posseduto” da ciò che può diventare un idolo. Jacques Dupont afferma: «La ricchezza è una maledizione perché tende a sviluppare un sentimento di sicurezza, radicalmente incompatibile con la fiducia che bisogna avere solo in Dio. Il ricco, trincerato nella sua ricchezza, si comporta come se Dio non esistesse e come se egli non dipendesse più da Lui». La sequela non è qualcosa che riguarda o può riguardare una parte dell’esistenza umana: o la tocca in tutte le sue sfaccettature o “non è”! Perciò o tutta la vita, anche nei suoi aspetti più “privati”, è trasformata e illuminata dalla sequela del Signore, oppure non si può essere suoi discepoli. «Occorre quindi “lasciare” la nostra vita, per “riprenderla” in un modo diverso… un lasciare che è una riappropriazione più profonda… nel segno del dono». (Matteo Ferrari, monastero di Camaldoli). Chi è il discepolo, allora? E’ “uno che va senza altri “pesi” che lo trattengano verso Gesù”.
(DON UMBERTO COCCONI)
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