Pubblicato da Don
Umberto Cocconi
il giorno domenica 2 dicembre 2012 alle ore 8,30
il giorno domenica 2 dicembre 2012 alle ore 8,30
Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l'attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all'improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell'uomo» (Vangelo secondo Luca).
Il linguaggio apocalittico di questa pagina di Vangelo, messo a confronto con ciò che sta succedendo ai giorni, sembra fatto apposta per suscitare domande. Non sarà che oggi sta accadendo qualcosa che rimanda ai terribili «segni nel sole, nella luna e nelle stelle»? Non sarà che i popoli siano in ansia, non solo o non tanto «per il fragore del mare e dei flutti», ma perché la crisi economica sta portando «sulla terra angoscia» ad un numero sempre più crescente di famiglie, comprese quelle della nostra città? E il peggio è già arrivato, oppure dobbiamo attenderci «angoscia per l'attesa di ciò che dovrà ancora accadere sulla terra»? David Maria Turoldo ci ricorda quale potrebbe essere la "soluzione" cristiana alla crisi e alle questioni economiche, affinché i rapporti iniqui vengano finalmente sovvertiti a favore di un'autentica condivisione. «Signore, manda un profeta che imponga: "Distribuite pane alla gente: non vale offerta a Dio di primizie, se non dividi col povero il pane". E più nessuno dei servi di Dio per sé accetti del pane e dell'orzo, se avanti al culto non mette la gente che grida e che piange perché senza pane. Signore, è questo il tuo sogno: che tutti gli uomini abbiano il cuore libero dalle cose, e sia questo il fondamento di ogni economia: perché non esiste proprietà, tutta la terra è di Dio, e tutti gli uomini sono figli di Dio. Signore, che la "roba" non ci divida più! E invece tutti si amino tanto che non ci sia più un povero fra di loro». Secondo Emmanuel Mounier, l’ansietà e il timore dell’avvenire sono già in sé una malattia; la Speranza, invece, è una dimensione dello Spirito e della coscienza umana, capace di trasformare la vita delle persone.
Qualcosa di simile allo slancio dell’utopia? Non proprio. L’utopia si affida ancora ai dati dell’esperienza, magari trasfigurandoli; la speranza cristiana, invece, proietta la sua dimensione ben al di là dell’orizzonte percepibile, mettendo in moto tutta una serie di atteggiamenti e prospettive che cambiano la realtà dal profondo: ha un suo modo inconfondibile di proiettarsi nel futuro, generando un nuovo presente. La speranza del credente trasforma e stimola verso “un’audacia dell’amore” che rende possibile, qui e ora, vivere quella che per il cristiano è una dimensione fondamentale: la carità, l’amore gratuito. La vita diventa una splendida avventura, degna di essere vissuta fino in fondo, contando sulle parole del Signore: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Davanti al continuo succedersi di eventi di dolore, di miseria, di sfruttamento, di prevaricazione, in una parola di tutto il male, la tentazione è infatti quella di rassegnarsi, di ripiegarsi, di abbandonarsi al cinismo o al qualunquismo. Non a caso il senso comune dice “finché c’è vita, c’è speranza”, ma noi dobbiamo dire “finché c’è fede, c’è speranza”: le due virtù camminano insieme, tenendosi per mano, sostenendosi e arricchendosi a vicenda. Fede è ciò che ti fa guardare sempre “oltre”, verso un fine, benché tutto tenda a trascinarti verso il basso, verso il gemito della disperazione che, come ci ricorda la Parola di Dio, è una realtà che occorre guardare in faccia, perché la speranza fiorisce proprio lì, non nell’illusione ma in una ricostruzione paziente della storia umana.
La speranza cristiana ha una peculiarità unica perché poggia sul fatto che il nostro Dio non solamente è accanto a noi, ma volendo essere come noi, ha conosciuto la fragilità fisica, la sofferenza, il dolore, la solitudine, l’angoscia dell’abbandono e della scomunica da parte del suo popolo. Il figlio dell’uomo ha condiviso e condivide tutto il tormento, tutto il peso della condizione umana. «Vegliate»: soffermiamoci un poco su questo imperativo del verbo vegliare (in latino, “vigilare”). E’ un’espressione tratta dal gergo militare dell’antica Roma. Le ore del giorno erano dodici: il vespro, perciò, era separato dalgalli cantus, il canto del gallo, da quattro “vigilie”, cioè da quattro turni di veglia. All’inizio di ogni “vigilia” c’era il cambio della guardia. Sforziamoci di immaginare quale sollievo provava il soldato all’idea di poter tornare a dormire, dopo il suo turno di veglia, e la fatica di quello che “montava”, nel cuore della notte, a dargli il cambio. Sono scene che si ripetono nelle guardiole dei nostri ospedali, tra gli infermieri, ma anche negli eserciti, tra i soldati, e nelle case, quando mamma e papà fanno a turno, per alzarsi a cullare e a cantare la ninna nanna al loro piccolo che piange. Vegliare è un verbo che richiama “nostalgie di attesa”: l’attesa del riposo, ma anche l’attesa dello Sposo e Signore, del Re che ha sconfitto la morte. Cristo ci dice: vegliate in ogni momento perché non esiste per il soldato di Cristo un “turno”: deve stare sveglio per tutte e quattro le vigilie.
La vita del credente è un’unica vigilia, un’unica veglia che potrebbe anche trasformarsi, da un momento all’altro, in una battaglia notturna. Non puoi spegnere la lanterna e non puoi lamentarti che “il letto e il cuscino ti chiamano”. Il soldato di Cristo sa che non può, che non deve abbassare la guardia. Deve sempre vigilare e vegliare pregando. La sua attesa deve essere operosa. Mentre fa la ronda notturna deve pregare e la preghiera del cristiano deve mostrare un forte atteggiamento dello spirito, un costante affidamento, che sostiene nel momento della scelta che poi sfocia nell’azione, così come l’azione sfocia nella preghiera. I soldati di Cristo non si limitano ad andare su e giù nell’attesa che qualcosa succeda, ma elaborano un piano per ingannare il nemico, cioè il diavolo, il divisore. Sfuggono alle insidie di satana che cerca di metterli “l’un contro l’altro armati”. I loro cuori non devono appesantirsi in «dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita» perché al canto del gallo, che annuncia la fine della guerra sostenuta, la loro lampada deve essere trovata accesa dalla Stella del mattino, quando il Cristo Risorto ritornerà vittorioso. Se la prima venuta del Figlio dell’uomo fu nello splendore raccolto, notturno, della stalla di Betlemme, la seconda venuta è da attendere nella tensione appassionata della veglia che sarà chiara come il Giorno. Al suo cospetto ci dovremo presentare, nella speranza che Lui ci dica: «bravo, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto. Prendi parte alla gioia del tuo padrone».
(DON UMBERTO COCCONI)
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