Gesù disse ai suoi discepoli: «Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio”. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna. Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono. Avete inteso che fu detto: “Non commetterai adulterio”. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna» (Vangelo secondo Matteo).
Gesù esagera: ha alzato l‘asticella all’infinito, come se si trattasse di un “salto” alla nostra portata. Già non riusciamo ad osservare i dieci comandamenti, che ci chiedono di fare o di non fare, con azioni o astensioni almeno apparentemente più a nostra misura. Ora c’è di più: si tratta di andare non solo oltre la lettera della legge, ma oltre le capacità umane. Non abbiamo mai ucciso nessuno, e questo ci basta per sentirci a posto? No, agli occhi di Gesù non basta! Il fatto di esserci arrabbiati con qualcuno, di avergli dato dello stupido o del pazzo, è già sufficiente per un giudizio di condanna. E chi di noi può sentirsi al riparo da un giudizio del genere? Conosciamo il proverbio che dice “Ne uccide più la lingua che la spada”. Ma quanti di noi lo prendono sul serio, nei comportamenti quotidiani? Eppure, se ci pensiamo, è proprio vero che la lingua, ossia la parola, va sorvegliata: è una temibile arma da taglio, che non ferisce tanto il corpo quanto la dignità di una persona, a volte in modo devastante, irreparabile. Ed è facilissimo “cascarci”: pensiamo a quanto poco tempo impieghiamo a fabbricare giudizi ed etichette per il nostro prossimo. In generale, quanto è facile scaricare con le parole e con i gesti la nostra violenza sugli altri, come se le persone fossero uno zerbino da calpestare o un ostacolo fastidioso sul nostro cammino, da spazzare via. Sappiamo tutti, poi, in che cosa consista l’adulterio: tradire carnalmente il proprio partner. Ma non è tutto qui. Gesù dice che siamo “stupratori”, che siamo corrotti (e corruttori) già nel nostro sguardo, che non è più capace di vedere con purezza le persone. Non siamo più capaci di “sentire” che gli altri sono un dono e non una nostra proprietà. Anche lo sguardo concupiscente non rispetta il valore e la dignità dell’altro: vorrebbe prevalere su di lui, usarne e abusarne, farne uno strumento del proprio desiderio. Sono gli occhi che, mentre guardano ciò che piace, guidano la mano ad afferrare l’oggetto del desiderio. Perché i nostri occhi non sanno più guardare le cose con purezza? Perché le nostre mani non sono più capaci di aprirsi per accogliere e custodire? Forse perché il nostro cuore è malato? Sì, è così.
Paradossalmente, se fossimo onesti, tante volte non potremmo dire, a noi stessi e agli altri: “La messa è finita, andate in pace”. Solo se avremo portato la pace, la messa, la “missione”, sarà davvero compiuta. Gesù afferma: “Se presenti la tua offerta sull‘altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia il dono davanti all’altare e va prima a riconciliarti con lui e poi torna ad offrire il tuo dono”. L’incontro con Dio presuppone che non ci siano risentimenti tra fratelli; non si può incontrare Dio se prima non ho fatto pace con il mio prossimo: è il dono più grande che posso presentare a Dio. Gesù poi non dice: “Se hai fatto qualche cosa contro tuo fratello”, ma “Se lui ha qualche cosa contro di te”. Quindi, se mio fratello non mi “dà la pace” non posso partecipare alla messa. Devo rifletterci bene, dunque: anche quando penso di essere a posto, potrei scoprire di aver bisogno del perdono dell’altro, della sua comprensione, della sua benevolenza. Quello che Gesù ci sta dicendo, in ultima analisi, è che al centro di tutto devono esserci le nostre relazioni: l’altro è la realtà più importante, quella che dobbiamo mettere al centro di tutto. Vivendo così vivremo da figli, saremo figli del Padre celeste. Non è la “giustizia” dei farisei a fare da pietra di paragone: una giustizia meticolosa e puntigliosa, fatta di innumerevoli osservanze, insuperabile, nel suo genere. A noi non è chiesto di essere giusti, a noi è chiesto di essere figli: Figli non di un Dio giusto, ma di un Dio talmente “esagerato” nella sua misericordia da non mettere se stesso e la sua immensità al primo posto, ma l’uomo e il desiderio che l’uomo sia salvo. L’ex fariseo Paolo, che ha fatto profonda esperienza di tutto questo, ha potuto perciò scrivere: «Pieno compimento della legge è l‘amore». Un amore che è prima di tutto dedizione incondizionata verso l’altro, al punto da renderlo importante e unico. Un amore che ti fa essere pieno di grazia.
"Lo stupro" o "Le viol", un olio su tela realizzato da Magritte nel 1935, testimonia la sua personale adesione al Surrealismo e si presenta come un bizzarro ritratto femminile. Guardare un ritratto significa incrociare tre sguardi, quello dell’artista, del modello e il nostro: gioco di sguardi, di rimandi, di allusioni e subitanee emozioni. Nel dipinto, Magritte conserva del soggetto femminile solo gli elementi più marcatamente sensuali, dal collo al ventre, trasformati in una sorta di pseudo-volto erotizzato: è proprio il volto vero e proprio che manca. L’artista “traduce” il volto di una donna in un oggetto del desiderio, lo priva di individualità, di espressione e di sentimento, trasformandolo in un corpo spersonalizzato e in qualche modo mostruoso, destinato alla soddisfazione dello sguardo desiderante, della sua avidità. Nei dipinti di Magritte, la donna appare sempre nuda, come se la nudità fosse un attributo che la rende in qualche modo assolutamente casta, “nuda veritas” disarmata, così come il male appare sempre vestito da capo a piedi, con eleganza, sfoggiando i panni della rispettabilità, dei colletti bianchi. L’idea alla base di questo quadro colpisce per la sua disarmante verità. E’ la raffigurazione efficace della violenza che lo sguardo di un uomo infligge quotidianamente al corpo di una donna; una perenne minaccia alla possibilità di giungere all’amore, che non disintegra mai, ma integra, lascia esistere nell’unicità, in quantoammira e accoglie. Magritte "smonta" gli organi del corpo femminile e ricrea con quelli lo pseudo-volto: i seni ti guardano, il naso si atrofizza fino a diventare l'ombelico, la bocca-pube sembra distorcersi in una smorfia torturata. Lungi dall’essere la spiritualizzazione del corpo, il dipinto rappresenta piuttosto la materializzazione dello spirito, la “cosificazione” e l'umiliazione dell’altro in oggetto sessuale vero e proprio: cieco, sordo e muto.
(DON UMBERTO COCCONI)
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