Pubblicato da Don Umberto Cocconi il giorno domenica 17 novembre 2013 alle ore 7,46
Mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: "Sono io", e: "Il tempo è vicino". Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine». Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita» (Vangelo secondo Luca)
Questa pagina ha uno straordinario sapore di cronaca: pare proprio di ascoltare uno dei nostri telegiornali, dove si parla di scandali, di lotte, di guerre, di intrighi, di paure per eventi catastrofici come gli tsunami e gli altri cataclismi. Viene quasi da pensare che la fine del mondo sia davvero imminente! Come definire la nostra epoca? I sociologi si sono sbizzarriti a tentare di descrivere la precarietà del nostro tempo: una società postmoderna, avanzata, globalizzata, “liquida”, e perché no, stanca. Non ci sembra di abitare il tempo della liquefazione di ogni identità, della contaminazione, della relativizzazione di tutti i confini? Oltretutto, siamo dentro a un meccanismo sociale basato sul principio di prestazione, che costringe la vita a essere sempre più produttiva, oltre che competitiva, per cui il singolo è sottoposto a una pressione potente, che lo rende individualista, impegnato a valutare e affermare prima di tutto se stesso. Anche la rivoluzione digitale, che ci ha promesso la libertà, l’autonomia, più tempo per noi, in realtà ci ha incatenati sempre di più al lavoro; non abbiamo più tempo per gli altri e per niente che non sia “funzionale”: per questo viviamo tutti con una stanchezza profonda, con uno stress talvolta insostenibile. Quella di oggi, almeno in una parte non trascurabile del mondo, pare essere un’umanità alla ricerca compulsiva della sensazione, prigioniera dell’idolatria, degli oggetti che seducono attraverso la costante proposta del piacere. In definitiva, «al centro non v’è più il nulla che minaccia l’Essere, ma un troppo pieno che ottunde, un eccesso di presenza, una mancanza della mancanza» (Massimo Recalcati). E tuttavia, proprio chi si trova nella condizione di “avere tutto”, o quasi, in realtà sente la mancanza di ciò che è essenziale, ma non sa in quale direzione andare, perché non ha più desideri. L’uomo occidentale è stanco della vita in genere o di questa vita? C’è nel “più profondo” del cuore umano l’esigenza di un altro modo di vivere? Per non soccombere e per cercare di vivere l’oggi con sapienza abbiamo ancora, come duemila anni fa, la possibilità di raccogliere le proposte e le sfide del vangelo. Gesù ci presenta tre atteggiamenti che, se vissuti, potrebbero far decollare la nostra vita. Il primo è “non lasciarsi ingannare”, ossia avere il coraggio di non lasciarci sedurre o abbindolare, da chi promette una felicità diversa da quella promessa da Gesù, come ad esempio una riuscita sociale, basata solo sul proprio tornaconto. Il secondo atteggiamento è “non lasciarsi prendere dalla paura”, perché di fronte alla paura o ci si nasconde o si diventa aggressivi. Invece, è giunto il momento di combattere, non con le armi del “mondo”, ma con le armi dello Spirito e della verità: per questo non si deve aver paura di “essere perseguitati”, perché la persecuzione è la conferma della vera e buona testimonianza. Chiediamocelo con serenità: se oggi avvenisse una persecuzione contro i cristiani, ci troverebbero colpevoli? Metterebbero le mani su di noi e ci trascinerebbero in tribunale e poi in prigione? O piuttosto saremmo assolti, per una mancanza di prove a nostro carico? La persecuzione è per il credente una sfida che gli permette di testimoniare un amore senza misura. E sarà proprio nel momento della prova che riceverà dallo Spirito Santo una forza tale, da permettergli non solo di essere sapiente, ma anche convincente. L’ultimo atteggiamento che siamo chiamati a vivere è quello che chiamiamo della “solitudine”. Saprai sperimentare l’essere abbandonato o tradito dalle persone più care? Saremo mai capaci di accettare la sconfitta, l’emarginazione, l’incomprensione? Oppure, come sempre, avremo bisogno del consenso degli altri? O non potremo far a meno di seguire gli imperativi della maggioranza, giusto per avere un posto al sole? Una canzone di Jovanotti ha questo ritornello: «Io non sono solo, anche quando sono solo», e sembra descrivere perfettamente la condizione di Gesù e di ogni credente. Proprio quando pensiamo di essere soli, abbandonati da tutti, Lui, il Padre celeste, non ci abbandona. Le parole di Gesù “nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto” ci fanno comprendere quanto sia preziosa la nostra vita agli occhi di Dio, sempre pronto a farne un capolavoro, a riempirla della sua Presenza, della sua gioia, a farne una “caparra” del suo Regno di pienezza e di luce: questo dovrebbe incoraggiarci profondamente! Per rispondere positivamente a queste tre esortazioni di Gesù, però, è necessaria la perseveranza, una virtù che ci manca, che il nostro tempo non possiede più. Ci stanchiamo subito, tutto diventa ben presto inutile e obsoleto; siamo distratti, presi dalle molte cose, dagli affanni, non siamo più capaci di aspettare, di attendere, di prenderci cura del mondo in modo gratuito. Perseverare significa prendersi un tempo di attesa, proprio come un insegnante che dedica ore e risorse all’educazione dei suoi studenti, specialmente di quelli più fragili, perché possano crescere diventare persone. O come il tempo “antico” del contadino, che lavora ogni giorno il suo orto e nonostante i primi germogli tardino a spuntare, rimane in attesa di vedere il suo impegno prendere vita e le sue fatiche trasformarsi in frutti. Tutto nasce da un lavoro paziente, assiduo, meticoloso, fatto di disponibilità all’ascolto, alla riflessione, alla confidenza, ma anche di premure e di costanti attenzioni, proporzionate a ciò che deve essere realizzato. Anche noi non dobbiamo arrenderci alla prima difficoltà, ma dobbiamo avere la pazienza di aspettare, la coerenza necessaria per non abbandonare la nostra strada, la forza di perseverare e dedicare attenzioni e cure alle cose che contano davvero, fino a poter raccogliere con abbondanza, magari in un tempo di carestia imprevisto, i “frutti del nostro lavoro” che non saranno nient’altro che il compiersi delle promesse di Dio.
(DON UMBERTO COCCONI)
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