Pubblicato da Don Umberto Cocconi il giorno sabato 27 luglio 2013 alle ore 15,14
Gesù disse «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: "Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli"; e se quello dall'interno gli risponde: "Non m'importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani", vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!». (Vangelo secondo Luca)
La parabola racconta un piccolo dramma: il dramma di mezzanotte, per l'appunto. E’ il dramma della “catena dell'amicizia”, per molti aspetti il dramma della nostra vita. Nella parabola che Gesù narra si intrecciano i destini di tre amici: l'amico venuto in visita a un’ora inconsueta, l'amico che sta già riposando con i propri figli e “l'amico importuno” che va a svegliare l’amico dormiente nel cuore della notte, la qual cosa è molto sconveniente. Ma chi è questo “maleducato”? E’ il vero protagonista della storia che è messo alle strette due volte: una prima volta quando deve affrontare il disagio di trovarsi senza niente, neppure tre pani, per nutrire l'amico venuto da lontano e che forse non vedeva chissà da quanto tempo. Come poteva non offrirgli niente e lasciarlo andare a dormire a stomaco vuoto? Il secondo grave imbarazzo è quello di dover svegliare un altro amico, che, vista l’ora tarda (mezzanotte) è già a letto con la sua famiglia. Nelle abitazioni, dell’epoca di Gesù, si dormiva per terra sulle stuoie, e si occupava il pavimento dell’ambiente di ingresso, che fungeva normalmente anche da camera da letto. “L’amico importuno” sa bene che ci sono dei bimbi già addormentati, che di certo potrebbero svegliarsi e piangere; eppure rischia, bussa e bussa più volte alla porta, per farsi sentire, pur sapendo che agli occhi del suo amico diventa sfacciato, impertinente e insopportabile. Con quale “faccia tosta” può azzardare questa richiesta notturna?
Evidentemente, lo fa perché crede nella bontà e disponibilità dell’amico padre di famiglia, ed è sicuro di ottenere quanto gli necessita. È un “amico importuno” certamente, ma sempre uno che conosce il significato dell’amicizia: «non è per sé che fa tutto quel chiasso, ma per l'amico affamato che attende. La sua è l'importunità dell'amore che non si rassegna al vuoto» (Cornelio Fabbro). L'amico alla fine cederà e gli darà i pani richiesti, se non altro per la sua ostinata insistenza. Immaginiamo che “l’amico importuno” sia chi bussa alle porte delle nostre comunità cristiane, direttamente o indirettamente, chiedendoci il pane della Parola di Dio o il pane della fraternità. Egli è colui che, bussando imprevedibilmente, mette a prova, sia i singoli sia l’intera comunità, e insidia le nostre rigide barriere, le nostre difese, le nostre chiusure, le nostre sicurezze e anche le nostre tradizioni. Quell'"amico importuno" è però colui che può cambiare la Chiesa e renderla più aperta al mondo, più capace di ascoltare la voce dello Spirito che soffia dove vuole. Quella dell'"amico importuno" costituisce pertanto un'immagine pregnante del rapporto tra la Chiesa e il mondo dei giorni nostri. Lasciarsi "importunare" dalle ragioni degli altri indica un segno radicale e altrettanto forte della novità, secondo lo stile di annuncio del vangelo.
La Chiesa è chiamata a deporre paludamenti, difese, abitudini oltre che a mostrarsi meno assoluta, rigida, ripetitiva e “sclerotizzata”. Nella vita della Chiesa oggi l’importuno è colui che tenta un approccio creativo, meno preoccupato dell’esteriorità e del formalismo. Se un gruppo o una comunità non si lasciasse scomodare “dall’amico importuno”, se preferisse la propria ordinata organizzazione dei tempi e degli spazi, all’apertura generosa dell’altro, terrebbe il comportamento opposto a quello che Gesù attribuisce al personaggio. Una comunità, un movimento, un gruppo che magari tenta una qualche forma di accoglienza dell’altro, ma non cerca di vedere, sentire e cogliere le cose come lui le vede, è ancora l’amico che non ti apre la porta. Una Chiesa quindi che non sia disponibile a lasciarsi disturbare e perfino a lasciarsi mettere in questione dall’urgenza della carità e della comunione, a qualunque ora del giorno e della notte, non è la Chiesa di Cristo. Non c’è altro modo per fare della comunità ecclesiale un’icona vivente del Padre che dà lo Spirito, sorgente di quella vita e di quella gioia, che solo da Lui provengono. L'amico ritenuto di primo acchito "importuno", diventa paradossalmente il nostro compagno di viaggio, colui che ci conforta, ci guida e ci sostiene. Siamo disposti ad accogliere l'"amico importuno", come una benedizione o a considerarlo una sorta di guastafeste?
Con questa parabola, Gesù ci esorta a diventare “amici importuni” presso il Padre celeste e a nutrire nei Suoi confronti una fiducia illimitata. Il compito del credente è “stancare Dio”, prenderlo per sfinimento, colpirlo più volte ai fianchi con i nostri appelli. Lui stesso ci chiede di non stancarci nel chiedere, ma soprattutto di chiedere osando, di chiedere “l’impossibile”: lo Spirito Santo. E’ Gesù stesso a darci la chiave di lettura della parabola, con le parole: «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto». Anche se Dio conosce tutto ciò di cui abbiamo bisogno «vuole essere importunato dalle nostre preghiere perché cresca la nostra fede nella sua paternità e amicizia. Dio vuole che ci rendiamo conto che tutto viene da lui e quando ci sembra di non essere esauditi, la preghiera ci aiuta a credere nel piano di Dio per noi che supera le nostre umane vedute, e a sentire la sua presenza accanto a noi nella vita» (Carlo Maria Martini).
Chiedere instancabilmente l’effusione dello Spirito significa decentrarsi da ciò che vogliamo costruire noi, a partire dagli idoli che ci siamo fabbricati (l’idolatria del fare e dell’efficienza), per passare da una dimensione puramente religiosa, a una dimensione di fede, che è accoglienza di ciò che fa Dio per noi, col suo dono d’Amore. Fede è credere: ma credere è fidarsi di un Dio fedele! In ebraico, fede si traduce con hemmunà“fiducia/fedeltà che a sua volta deriva dal verbo Aman: essere solido, stabile, sicuro. Ecco da dove viene la parolaAmen, che tanto spesso ripetiamo nella liturgia, e che vuol dire: è vero, certo, è così, Tu o Dio sei fedele e io mi fido di te! Crediamo che Dio manterrà la promessa di darci lo Spirito Santo, che è Amore. Se siamo insistenti nella nostra richiesta non è per mancanza di fiducia, ma per rammentare sempre che l’amore, con le opere che ne conseguono, è prima di tutto effuso da Dio e non un nostro oggetto di conquista.
(DON UMBERTO COCCONI)
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