Pubblicato da Don Umberto Cocconi il giorno sabato 13 aprile
2013 alle ore 18,23
«Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il
Signore!”».
La domanda che ha accompagnato i discepoli quel giorno diventa anche la nostra, quando celebriamo l’eucaristia: “Chi sei?”. Come puoi Gesù essere presente nel segno del pane? Eppure avverto che Tu ci sei, perché parli al nostro cuore e ci spingi ad andare oltre le apparenze, oltre il sensibile. Il dubbio si fa più acuto quando dopo aver pronunciato le parole della consacrazione – «prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo» – , io mi inginocchio. Sarà l’abitudine o una parvenza di mistero, che mi fa inginocchiare? O piuttosto la decisione di voler credere all’impossibile? E allora scopro quanto è bello credere, soprattutto quando in me sento una voce che dice: “Non è possibile che sia così”; ma la mia bocca o meglio il mio cuore, afferma con forza: «Mistero della fede». E’ così fantastico credere che Tu, o Signore, sei lì e ti manifesti nonostante la mia incredulità. Mi comporto anch’io come i discepoli perché so che Tu sei lì, eppure ho paura di avvicinarmi e chiederti “Chi sei?”. Se arrivassi davvero a comprendere questo mistero d’amore, dato dalla tua presenza in noi, non sopravviverei dalla gioia. E’ bene che tu rimanga nascosto, sotto la specie del pane, di cui abbiamo bisogno per vivere. Se nella croce era velata la divinità del figlio di Dio, ora invece, nel pane, è nascosta anche la Sua umanità, come recita un antico inno. Se nella croce non riuscivo a vedere Dio, il Dio fatto uomo, ora non riesco neppure a vedere l’Uomo di cui quel pane è il Segno. So però che, mangiando di quel pane, io vivrò davvero, perché è il Pane degli angeli, che contiene in sé ogni dolcezza. «Tu non vedi, non comprendi, ma la fede ti conferma, oltre la natura. È un segno ciò che appare: nasconde nel mistero realtà sublimi. Mangi carne, bevi sangue: ma rimane Cristo intero in ciascuna specie» (San Tommaso).
«Dopo aver pranzato, dice Gesù a Simon Pietro: "Simone di Giovanni, mi ami (agapâs) tu più di costoro?". Gli risponde: "Sì, o Signore, tu sai che io ti voglio bene (phileis). Gli dice: "Pasci i miei agnelli". Gli dice per la seconda volta: "Simone di Giovanni, mi ami (agapâs) tu?". Gli risponde: "Sì, o Signore, tu sai che io ti voglio bene (philéis)". Gli dice: "Pasci il mio gregge". Gli dice per la terza volta: "Simone di Giovanni, mi vuoi bene (philéis)?"». Nella lingua greca il verbo amare si può esprimere con philéo, che significa “amare” nel senso di amore amichevole, volersi bene, avere caro qualcuno, trattare con affetto, accogliere amichevolmente un ospite, oppure agapáo che significa “amare” da innamorato, nel senso di avere caro, prediligere una persona a 360 gradi. L’esperienza cristiana ha conferito a quest’ultimo verbo un significato che è ulteriore rispetto al senso, usato in altri contesti culturali. Una volta assimilato dai testi cristiani, il verbo agapáo assume un significato completamente nuovo: indica la vita stessa di Dio. Se il verbo indica l’azione, allora agapein è l’azione che Dio compie eternamente. Roberto Benigni afferma: «Che cosa fa Dio dal mattino alla sera fin dall’eternità? Ama, soffia amore» e questo amore aumenta sempre di più ogni istante. Tutta la storia dell’umanità, dalla creazione, è la concretizzazione di questo soffio d’amore. Il desiderio di amare, da parte di Dio, lo ha “costretto” a creare il mondo, perché colui che ama necessariamente genera. L’amore genera altro amore, è creativo come quello degli sposi, che amando, sempre e comunque, generano la vita. Agapáoindica quindi l’amore totale, esclusivo, incondizionato. L’uomo può essere capace di “amare da Dio”, essere capace di vivere l’esperienza dell’agape, del dono totale di sé? O ciascuno di noi è capace di vivere solo l’amore come phileo, ossia come voler bene da amico? Oppure è capace di vivere secondo quell’amore che viene dallo Spirito santo - il soffio di Dio - che lega il Padre al Figlio e il figlio al Padre.
Gesù ha amato Pietro di amore gratuito, nel momento in cui l’ha guardato negli occhi, proprio quella notte in cui Pietro lo ha rinnegato. Ora Pietro – come direbbe San Francesco – può “restituire” questo amore a Dio, proprio perché «l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori» e in virtù di questa effusione siamo capaci di amare, altrimenti il nostro amore sarebbe solo “possesso”, legato più all’eros che all’agape. Quando l’eros non si apre alla filía e all’agápe, non è quell’amore che si apre al dono di sé. L’amore di Dio invece è un amore che fa nuove tutte le cose. «Se uno è in Cristo è una creatura nuova le cose di prima sono passate ne sono nate di nuove» (San Paolo). Quindi, grazie al soffio di Dio, non conta quello che sei stato, quello che hai fatto: tutto ricomincia, come all’alba di un nuovo giorno. Alla domanda: «Mi ami tu?» tutto può ricominciare, sia per che ha sbagliato che per chi ha subito ingiustizie e soprusi. E allora tu ti scopri capace di amare come un Dio! Quindi, quando l’amore si manifesta attraverso il dono della vita, come Gesù sulla croce, non risulta mai una sconfitta, ma è l’espressione della gloria di Dio. Ora finalmente, per la prima volta, Pietro sa che cosa significa seguire Gesù: non significa andare incontro alla gloria e al successo, ma accogliere il Suo invito: «Segui me», ossia “seguimi” e vivi camminando nella carità.
(DON UMBERTO COCCONI)
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