Pubblicato da Don Umberto Cocconi domenica 11 maggio 2014 alle ore 7,10
Allora Gesù disse loro di nuovo: «Amen, amen, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Vangelo secondo Giovanni)
Gesù si definisce per ben due volte “porta” e, con un’enfasi particolare, tipica di una rivelazione divina è introdotta solennemente dal doppio “amen” e con quell’“Io sono”, espressione che indica l’identità profonda di Gesù, il Signore. Gesù è a Gerusalemme, e si trova forse nelle vicinanze della Porta delle Pecore, dalla quale passavano gli animali condotti al Tempio per essere sacrificati. L’allusione perciò è particolarmente forte, visto il rapporto conflittuale tra Gesù e i custodi della “religione del Tempio”: sacerdoti e scribi, ma anche una gran parte di farisei. Nel tempio o nelle sue vicinanze Gesù insegna e compie segni, vivendo duri confronti dialettici con i rappresentanti del mondo religioso; egli sa che il momento della “consegna” della sua vita è ormai vicino. I vangeli di Matteo e di Giovanni sono particolarmente ricchi di indicazioni sul rapporto tra Gesù e il tempio di Gerusalemme. Gesù è il tempio, Gesù è la porta, Gesù è l’agnello del sacrificio e nello stesso tempo è il pastore modello. Che incredibile ricchezza! In Giovanni, l’ombra “luminosa” del sacrificio e insieme della gloria di Gesù si stende su ogni pagina, fin dal principio, e quindi anche nei versetti che ascoltiamo oggi, intessuti di simboli fondamentali, a cominciare da quello della “porta”.Che cos’è una porta? Che funzione ha? Che cosa delimita? Di quali porte abbiamo esperienza? Già la nascita è, per eccellenza, l’attraversamento di una soglia: dall’ambiente caldo e accogliente del grembo materno si giunge al mondo esterno. Per quanto in quel momento si sia circondati da cure e attenzioni, l’evento provoca in ogni caso un trauma indelebile, che è seguito da una scia di affetti e di memorie inconsce: paure, nostalgie, desideri.
Da allora in poi, l’esistenza è tutta un attraversamento di soglie, reali e simboliche, come quelle che segnano i passaggi da un’età all’altra, oppure come quelle dei diversi ambienti, nei quali si snoda la nostra stessa vita. “Entriamo” nella vita, “usciamo” dall’infanzia per “entrare” nell’adolescenza, “usciamo” dall’adolescenza per “entrare” nell’età adulta e così via. “Usciamo” di casa al mattino per “entrare” nei diversi ambienti del nostro lavoro o del nostro impegno, “rientriamo” in casa alla sera, per ritrovarci nel tepore della nostra casa, circondati dagli affetti famigliari, in quel silenzio domestico che fa decantare il frastuono della giornata e ci rigenera. Un giorno, faremo la nostra “uscita” dalla scena del mondo per “entrare” nella pienezza della vita, nella casa del Padre. Nelle diverse culture, l’atto del “varcare una soglia” ha il significato di entrare in un mondo nuovo e la “porta” rappresenta la separazione o la comunicazione tra due ambiti diversi o il passaggio tra due livelli: il noto e l’ignoto, il profano e il sacro. Attraversare la “porta” significa anche andare incontro al futuro: una sfida, per la società e la cultura d’oggi, dove si fatica a vedere prospettive aperte e incoraggianti. Davanti a tante “porte” sicuramente chiuse, anzi sbarrate, è ancora possibile “varcare la soglia della speranza?”. E le nostre comunità parrocchiali, sono comunità con le porte aperte? Papa Francesco si è rivolto agli aderenti all’Azione Cattolica con queste parole: «Quando io saluto le segretarie parrocchiali domando loro: “Ma Lei è segretaria di quelli che aprono le porte o di quelli che chiudono le porte?”.
Queste parrocchie hanno bisogno del vostro entusiasmo apostolico, della vostra piena disponibilità e del vostro servizio creativo. Si tratta di assumere il dinamismo missionario per arrivare a tutti, privilegiando chi si sente lontano e le fasce più deboli e dimenticate della popolazione». Ricordiamo ancora il grido di Giovanni Paolo II: «Aprite le porte a Cristo! Anzi spalancate le porte a Cristo!». Ora, papa Francesco ci ricorda che non dobbiamo tenere prigioniero Cristo nella nostre comunità: «Si tratta – anzi - di aprire le “porte” e lasciare che Gesù possa andare fuori. Tante volte abbiamo chiuso Gesù nelle parrocchie con noi, e noi non usciamo fuori e per di più non lasciamo uscire fuori Lui! Aprire le porte perché Lui vada, almeno Lui!», visto che noi non lasciamo il nostro nido, le nostre sicurezze. L’opera pittorica di Antonio Martinotti, “Cristo alla porta”, del 1953, eseguita per la “porticina” di un tabernacolo, rimanda il passo del libro dell’Apocalisse, dove Gesù dice: «Io sto alla porta e busso, se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui e lui con me». Le labbra di Gesù sono quelle di chi ha appena terminato di parlare, di Colui che ha appena detto il suo “amen”, il “tutto è compiuto”, e si propone a noi, silenziosamente, ormai senza più bisogno di parole. Gesù apre la porta, è proprio Lui ad aprirla, ma non entra: si limita a guardare. Quello sguardo non sembra voler incontrare direttamente il nostro: non vuole né afferrarci, né sedurci, per lasciarci alla nostra libertà. In questi immensi occhi c’è il sentimento dell’attesa, ma anche il timore di vedere ciò che non si vorrebbe vedere: rifiuto, tradimento, o ancora più facilmente estraneità, indifferenza.
La luce del quadro è tutta negli occhi di Gesù, mesti e profondi al tempo stesso. Quante volte i vangeli pongono in rilievo lo sguardo di Gesù! La sua mano, poi, è già nella fessura, come quella dell’Amato nel Cantico dei Cantici, ma la porta resta socchiusa all’infinito, fino a che non sarà la nostra stessa libertà a decidere di spalancarla. Spalancarla vuol dire aprire il nostro cuore per confidarGli le nostre fatiche e le nostre speranze. Al di qua della porta ci siamo noi, “bruchi di terra” come l’ombra che si intravede sull’uscio. «Noi siamo invitati ad un banchetto, eppure terribilmente distratti ed indaffarati, al punto da non distinguere più tra ciò che vale e ciò che è effimero, anzi addirittura tentati di accontentarci del superfluo e del banale» (Danilo Dorini). Il banchetto è imbandito per noi con la carne e il sangue dell’Agnello immolato: pienezza di vita, di libertà e di amore. Tutta questa “grazia di Dio” rimane disponibile, appena al di là della soglia, e sembra quasi che noi non vogliamo neppure far caso al Cristo che rimane lì, fissandoci, in attesa. Con quello sguardo Lui ci interroga, oggi come ogni giorno, e ci pone sempre la stessa domanda: “Vuoi seguirmi?”
(DON UMBERTO COCCNI)
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