Gli amici mi chiedono perché io non abbia scritto neppure una riga per la morte di Gian Carlo Artoni sulla Gazzetta. In realtà in questi anni, con Paolo Briganti, ho promosso la pubblicazione di 4 libri sul mio amico poeta, che definiva Paolo e me coautori. Ho scritto altrettante pre e post fazioni. Gian Carlo mi ha sempre detto che avrebbe voluto che la mia nota biografica alla sua omnia poetica fosse anche il coccodrillo sulla Gazzetta. Mi son messo a disposizione. Ma al giornale hanno ritenuto che essendo io candidato sindaco pubblicando un mio testo mi avrebbero favorito nella corsa elettorale. Tutto qui. Ci sta. Ma nessun pensi che io abbia "dimenticato" il mio amico e padre-letterario.
Ecco il mio testo amato da Gian Carlo:
Polùtropos è una parola greca. Un aggettivo che piacque a Omero. La traduzione in italiano non è facile. Si potrebbe dire “dal multiforme ingegno”. Ecco: Gian Carlo Artoni è un uomo dal multiforme ingegno. Un polùtropos. In ordine alfabetico: avvocato, collezionista di begli oggetti (non solo quadri), consigliere (ascoltato) di grandi uomini d’impresa, critico d’arte, critico letterario, difensore degli animali, fondatore di inserti culturali e riviste, organizzatore di mostre e concorsi letterari, poeta, politico, scrittore, studioso della storia della sua città. Soprattutto, specchio della sua città. La grande Parma del secondo dopoguerra, la Parma colta, industriosa e industriale, ricca di denari, di iniziative, di uomini di valore, di sogni e di progetti. La Parma color malva dal multiforme ingegno, la Parma che non c’è più. Nel 1923, quando il poeta è nato sotto il segno dell’ariete, in città stava rinascendo la civiltà dei caffè. Parma pullulava di scrittori, poeti, letterati, saggisti, filosofi, pittori, giornalisti colti, editori illuminati, che amavano ritrovarsi davanti ai tavolini di via Farini e della Piazza. La prima ondata, guidata da Ugo Betti, Atanasio Soldati, Cesare Zavattini, Erberto Carboni, don Giovanni Drei e Sebastiano Timpanaro, usava riunirsi al San Paolo, in via Farini, ribattezzato da un giovanissimo Giovannino Guareschi “il Caffè della Legione straniera”. Nei decenni vennero nuovi luoghi d’incontro – il Tanara e Otello in piazza Garibaldi sono i più gloriosi – e nuovi adepti del cenacolo culturale: Attilio Bertolucci, il Piccolo Socrate Pietro Bianchi, Enzo Paci, Mario Luzi, Oreste Macrì, Aldo Borlenghi, Giacinto Spagnoletti, Carlo Mattioli, Ubaldo Bertoli, Roberto Andreotti. Di tanto in tanto sbarcavano dal treno Carlo Bo, Antonio Delfini, Gian Carlo Vigorelli, Pier Paolo Pasolini e Vittorio Sereni, curiosi pendolari della cultura. Per lo più si trattava di intellettuali non fascisti, professori di liceo, che sceglievano Parma perché poco mussoliniana, poco occhiuta; insomma, più libera di Roma e Firenze, le vere capitali della cultura italiana. Professori straordinari, maestri di lettere e di vita. «Da quei nostri insegnanti – racconta Gian Carlo Artoni, riferendosi in particolare ad Aldo Borlenghi, Attilio Bertolucci e Francesco Squarcia, numi tutelari del Maria Luigia – abbiamo imparato a leggere e a scrivere; a scegliere i libri e le cravatte; a guardare i quadri e i film. Quando si poteva, ci sedevamo al loro stesso caffè, ma a un tavolo separato cercando di fare tesoro di quello che con i loro amici dicevano».
Poi venne la guerra, venne la Resistenza ed, infine, la pace. Molti professori se ne andarono a Roma e a Milano per insegnare nelle Università, sceneggiare film, dirigere aziende editoriali, stare più vicini ai circoli del potere culturale. Nuove facce entrarono nel mondo dei caffè. Gian Carlo Conti, Giorgio Cusatelli, Roberto Tassi, Giorgio Belledi, Gian Paolo Minardi, Giuseppe Tonna. Eccoli gli amici di Gian Carlo Artoni. I giovani turchi alla conquista della scena culturale degli anni Cinquanta. Anni formidabili. Dolci ed elettrici a un tempo. Anni creativi. Il nostro poeta-avvocato (o avvocato-poeta?) è rimasto l’unico a Parma che può raccontare, tutte insieme, la fondazione del «Raccoglitore», inserto culturale della Gazzetta di Parma che ha fatto da apripista a tante iniziative editoriali dei quotidiani nazionali; la nascita e la crescita della impareggiabile rivista letteraria «Palatina»; i pomeriggi assolati all’ombra dei platani di Forte dei Marmi dove si ritrovavano per trarre ristoro dalla calura Roberto Longhi, Anna Banti, sua moglie, Enrico Pea, Giuseppe de Robertis, Carlo Carrà; le sigarette divorate da Ugo Guanda; la gentilezza dell’ingegnere Carlo Emilio Gadda, a Parma come giurato del premio Colombi Guidotti, creato proprio da Gian Carlo Artoni per ricordare l’amico scomparso; la timidezza con cui Pier Paolo Pasolini porgeva le sue prime poesie in lingua friulana; le serate trascorse nell’abitazione di Baccanelli di Attilio Bertolucci, col piccolo Bernardo che correva da una stanza all’altra mentre Aldo Borlenghi gli insegnava le prime parolacce; i pranzi spartani nella casa contadina di Ettore Guatelli; il convegno sul cinema neorealista e la nascita di quella straordinaria foto scattata sul lungoparma, con tutti i protagonisti dell’“officina parmigiana” schierati intorno a Pietro Barilla, il Mecenate di tante iniziative. Può raccontare, Gian Carlo Artoni, le grandi feste, a metà strada tra La dolce vita e La grande bellezza, che Pietrino Bianchi teneva al Castello di Baiso, il suo castello; può raccontare, e agli amici qualche volta racconta, gli amori, i tradimenti, le avventure un tempo segrete, di tanti che non ci sono più. Può raccontare di Ardengo Soffici, di Giovanni Papini, di Beppe Fenoglio, di Mino Maccari, dei numerosi pittori cui ha dedicato saggi e introduzioni. Ma anche del suo (ex) giornalaio Corrado Maghenzani, che ha scritto meravigliosi libri, alcuni dei quali aspettano ancora un editore. Ama raccontare di quando incontrò per la prima volta Oreste Macrì, ricoperto di una «palticcia» di colore «asfaltico». Racconta anche delle immersioni a caccia di cernie in una Sardegna deserta e ventosa, non ancora scoperta dai turisti. Racconta i viaggi con Ginetto Consigli in caccia di vasi liberty e decò, quando ancora Gallé era una parola d’ordine per iniziati. Racconta Beirut quando era la rutilante Parigi del Vicino Oriente. Potrebbe raccontare la straordinaria bellezza di una sua cliente dagli occhi azzurri di nome Ninì. Racconta la città che fu. Perché la poesia non ha saputo imprigionare per sempre il suo “multiforme ingegno”. Quella città appena uscita dalla guerra dove il pomodoro diventava oro rosso, dove i prosciutti, toccati dalla bacchetta magica, si trasformavano da delizie per la tavola dei parmigiani benestanti in prodotti industriali da vendere in Italia e nel mondo insieme al parmigiano reggiano, dove i falegnami Salvarani inventavano la versione europea della cucina componibile, dove i fabbri Simonazzi vendevano macchine per l’imbottigliamento alla Coca Cola, e i Manzini, i Vettori & Manghi, i Rossi & Catelli, costruivano attrezzature gigantesche per trasformare i prodotti della terra. La sorte di quel Paese in fermento, l’Italia, non lo poteva lasciare indifferente. In quella città e in quel Paese, Gian Carlo Artoni si è tuffato senza risparmiarsi, attraverso la politica e l’avvocatura, le due passioni, che, anno dopo anno, piano piano, lo hanno rubato alla poesia. Figlio della buona borghesia delle professioni, coerente con la storia familiare, è entrato nel partito liberale di Giovanni Malagodi (un liberale così diverso da Claudio Scajola o da Sandro Bondi, un liberale che in famiglia parlava in lingua latina...) ed in breve è diventato consigliere comunale e capogruppo di opposizione ad un’amministrazione governata dai comunisti e dai socialisti massimalisti. In pubblico scontri ideologici, in privato la domanda: Avvocato, ma lei cosa ne pensa? Non va bene, la risposta. E allora la delibera spariva, spesso per sempre. Quelli eran tempi. Quella era la politica dei galantuomini. Una parola che oggi non si usa più o si usa poco. Poi c’era l’avvocato, che in silenzio, un passo alla volta, ha soffocato il poeta. L’avvocato che all’inizio ha studiato giurisprudenza per accontentare il padre, che per anni ha tenuto un occhio sulle pandette e uno sui versi, ma che poi ci ha preso gusto alla giurisprudenza e alla dottrina, al retratto successorio e alla teoria dell’affidamento, che ha acquisito clienti sempre più importanti in giro per l’Italia, aziende in pieno sviluppo, marchi storici, è diventato presidente dell’ordine, consigliere di grandi capitani d’industria, ha sfidato le Brigate Rosse in clamorosi processi di lavoro, è entrato nei consigli di amministrazione, ha partecipato, insomma, alla nascita di una Parma e di un’Italia, forte e prospera. Mentre la passione civile annacquava la vena poetica. Mentre i faldoni che si accumulavano nello studio rubavano spazio ai libri di versi e di storie che comunque non hanno mai lasciato per sempre la sua scrivania. Gli anni Settanta hanno portato via alla poesia una voce asciutta e forte e messo a disposizione della società una intelligenza concreta e lucida. Ma questa è un’altra storia, da raccontare in altri libri. Resta una domanda: c’è qualche giudice che tra le geometriche righe di una comparsa artoniana è stato capace di riconoscere il passo del poeta?
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